Greco Marina, L’ascolto agli albori del pensiero occidentale
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- Categoria: ASCOLTAZIONE
- Pubblicato Lunedì, 24 Maggio 2010 08:14
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Socrate, precursore dell’ascolto
Una riflessione sull’ascolto posto in relazione con l’origine del pensiero occidentale impone un doveroso punto di partenza: Socrate.
Il filosofo greco, infatti, rappresenta una sorta di spartiacque rispetto al passato: la rivoluzione da lui compiuta nel campo della conoscenza è tale che il periodo che lo precede è generalmente indicato nella storia della filosofia come pensiero pre-socratico. In cosa consiste questa sorta di “rivoluzione gnoseologica”?
L’indagine filosofica fino ad allora si era occupata e preoccupata della ricerca della verità. Socrate persegue lo stesso obiettivo, ma ciò che lo contraddistingue e che fa sì che egli sia posto all’origine del pensiero occidentale, basato sulla razionalità e sull’astrazione1, sono i due capisaldi del suo peculiare modo di filosofare: il dialogo e la professione di ignoranza.
Il dialogo socratico (da dialéghesthai, conversare, ragionare con) è un innovativo strumento/metodo per arrivare all’intuizione della verità, basato su quella che il filosofo definisce maieutiké tèchne, ovvero la maieutica che, nell’antica Grecia, era l’arte esercitata dalle levatrici, le odierne ostetriche: “La mia arte di maieutico in tutto è simile a quella delle levatrici, ma ne differisce in questo, che essa aiuta a far partorire uomini e non donne e provvede alle anime generanti e non ai corpi. Non solo, ma il significato più grande di questa mia arte è ch’io riesco, mediante di essa, a discernere, con la maggior sicurezza, se la mente del giovane partorisce fantasticheria e menzogna, oppure cosa vitale e vera.
E proprio questo io ho in comune colle levatrici: anche io sono sterile, sterile in sapienza; e il rimprovero che già molti mi hanno fatto che io interrogo gli altri, ma non manifesto mai, su nulla, il mio pensiero, è verissimo rimprovero.
Io stesso, dunque, non sono affatto sapiente né si è generata in me alcuna scoperta che sia frutto dell’anima mia.
Quelli, invece, che entrano in relazione con me, anche se da principio alcuni d’essi si rivelano assolutamente ignoranti, tutti, poi, seguitando a vivere in intima relazione con me, purché il dio lo permetta loro, meravigliosamente progrediscono, com’essi stessi e gli altri”2.
Socrate, figlio dell’abilissima levatrice Fenarete, utilizza il termine maieutica in senso traslato per meglio descrivere la tipologia di relazione che intercorre nei suoi dialoghi fra lui e il suo interlocutore: “quelli che conversano con me … assomigliano alle partorienti … passano notti e giorni pieni di inquietudine e di angoscia ... Questa sofferenza la mia arte sa placare ...”3.
Per quale motivo gli interlocutori di Socrate sono pieni di inquietudine e di angoscia? In quale modo il filosofo si prende cura di loro e soprattutto come fa cessare la loro sofferenza? Chiunque dialoghi con Socrate è all’oscuro di due fondamentali verità che lo riguardano: è inconsapevole di essere ignorante; è inconsapevole di possedere in potenza la capacità di giungere all’intuizione della sua verità, ovvero di capire in cosa consista per lui il méghiston agathón, il sommo bene4.
La genialità della maieutica socratica consiste nel fatto che Socrate non impone il suo punto di vista ai suoi interlocutori né consegna loro una verità data e precostituita come fino ad allora avevano fatto i filosofi suoi predecessori, primi fra tutti i sofisti.
Socrate si prende cura di colui che dialoga con lui attraverso l’ascolto; il suo, però, è un ascolto attivo; i suoi interventi nel dialogo sono puntuali, dimostrano la fallacia dell’altrui ragionamento (élenchos, confutazione), sottolineando ogni più piccolo e apparentemente insignificante vuoto logico (aporìa) nel discorso dell’interlocutore; questi viene incalzato con piccole e brevi frasi a cui deve necessariamente rispondere in modo altrettanto breve (katà brachù dialéghestai) ed è disorientato dall’ironia del maestro, ovvero dall’apprendere che Socrate stesso si professa ignorante5.
Questo modo di procedere nei dialoghi da parte del filosofo greco attiva nel suo interlocutore una riflessione, una sorta di trasformazione che lo indurrà a mettere fuori da sé un suo pensiero, una sua verità: solo in questo modo egli ne potrà essere consapevole e potrà dunque interiorizzarli.
Così Socrate dice a Teeteto: “Sospetto che tu sia interiormente gravido; affidati, dunque, a me che sono figlio di una levatrice e ostetrico io stesso, e impegnati a rispondere a quello che io ti domando, così come sei capace di fare”6.
Nel dialéghestai socratico, dunque, Socrate è l’abile levatrice mentre il suo interlocutore è la partoriente.
Attraverso l’ascolto e il dialogo, ovvero con la sua arte dialettica, Socrate aiuta il suo interlocutore a liberare “l’anima dall’illusione del sapere e in questo modo a curarla (corsivo in grassetto di chi scrive) al fine di renderla idonea ad accogliere la verità”7.
Qual è, dunque, l’elemento decisivo perché ci sia il ‘travaglio’ e dunque possa venir fuori, nascere il mondo interiore degli interlocutori del filosofo greco?
La disposizione all’ascolto, “espressione di un lògos che non è soltanto un dire ma soprattutto un ascoltare”8.
Anche Tomatis, che così tanto ha studiato l’ascolto, riconosce l’importanza del metodo socratico: “Socrate è all’ascolto dell’altro. Presta attenzione anche alle parole degli dei. Inoltre si pone in ascolto di se stesso. Con l’orecchio aperto, si impegna arditamente nel campo dell’ascolto e vi resta sempre fedele.”9
L’ascolto è l’anima della maieutica socratica: “l’interlocutore ascoltante entra a far parte del pensiero nascente di chi parla. Ma chi ascolta può <entrare> soltanto in un modo tanto paradossale quanto impegnativo: <uscendo>, facendosi da parte e facendo spazio”10.
Farsi da parte è l’unica via perché il mondo interiore dell’altro possa venire alla luce.
Farsi da parte, però, non significa lasciare l’altro solo, ma, al contrario, contenerlo con il proprio spazio interiore: è “il ragionare dialogico e maieutico che, dunque, ascolta, accoglie e consente di vivere”.11
Naturalmente, affinché il proprio spazio interiore possa disporsi ad ascoltare e accogliere quello nascente dell’altro, è indispensabile conoscerlo a fondo. È pertanto indispensabile disporsi innanzi tutto all’ascolto di se stessi: “Saggio fra i saggi, Socrate è un ascoltatore modello.
È il primo a capire che non vi può essere condivisione senza conoscenza di sé.”12
Il procedere dialogico di Socrate non prescinde, dunque, dalla previa conoscenza di sé. Al di là della celebre professione della propria ignoranza e del monito ghnôthi sautòn13, “conosci te stesso”, una delle caratteristiche più significative del pensiero di Socrate è la sua relazione con il dáimon interiore a cui egli presta ascolto14.
Che cos’è questo dáimon?
È una voce interiore che gli parla incessantemente e che gli impedisce di compiere una determinata azione quando sta per compierla e che lo spinge alla continua ricerca della verità attraverso il dialogo e il confronto con gli altri, attività che, come abbiamo visto prima, sono considerate dal filosofo tò méghiston, la cosa più importante.
La voce interiore che parla a Socrate e che gli dice ciò che non è da fare ha come “unica preoccupazione la salute dell’anima”15. Nel ragionare dialogico e maieutico di Socrate, ascoltare l’altro non significa far posto alla vis linguistica dell’altro, ma significa innanzi tutto elaborare la capacità di ascoltare se stessi, per consentire poi che l’altro possa essere ascoltato, accolto16. L’essere parla, dunque, dentro ciascuno di noi e ciascuno dovrebbe porsi in ascolto di se stesso e del proprio essere. L’incapacità a questo tipo di ascolto non può che determinare “l’oblio dell’essere”17.
Agli albori del pensiero occidentale, l’ascolto sembra essere, in definitiva, la chiave di accesso alla conoscenza di sé, dell’altro e della verità: “l’ascoltare è la via regia imboccata dal desiderio di conoscere”18.
Marina Greco
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1“... (Aristotele) dice che due cose possono essere legittimamente attribuite al filosofo ateniese: le “argomentazioni induttive” e il “definire universalmente””. Giannantoni G., Storia della fiolosofia, vol. III, Casa Editrice Dr. Francesco Vallardi, Società Editrice Libraria, Milano 1975, p. 117.
2Platone, Teeteto, 150, a-d, in Platone, Tutti gli scritti, a cura di G.Reale, Rusconi, Milano 1991, pp. 201-202.
Platone, allievo di Socrate, nei suoi numerosi dialoghi ha voluto lasciare una traccia scritta del pensiero e dell’arte dialettica del suo maestro, non avendo questi scritto nulla.
3Platone, Teeteto, 151, a-b, ibid.
4Come Platone scrive nell’Apologia (XXXVIII, a), per Socrate il bene più grande, il méghiston agathón appunto, consiste nel discutere, ragionare, conversare ogni giorno sulla virtù, nel far ricerche su se stesso e sugli altri. Per lui una vita che non sia animata da questa ricerca e da questa indagine continua è indegna di essere vissuta.
5“In questa dissimulazione di ignoranza consiste essenzialmente la famosa “ironia” socratica”, Giannantoni G., op. cit. p.129.
Questa docta ignorantia socratica è proprio la consapevolezza di non sapere: “so di non sapere” è il celebre motto di Socrate (sùnoida, in greco significa proprio “con-so”, cioè so con me stesso, sono con-sapevole). Questa sorta di ossimoro si spiega con un aneddoto della vita di Socrate raccontato da lui stesso nella Apologia di Platone (21, b-e): la sacerdotessa dell’Oracolo del tempio di Apollo a Delfi, la Pizia, aveva individuato in lui l’uomo più sapiente di Atene. Socrate ne fu stupito in quanto si era sempre professato ignorante e proprio la consapevolezza di non sapere lo spingeva alla ricerca della conoscenza. Iniziò, così, a dialogare con tutti coloro che avevano fama di essere dotti per dimostrare che la Pizia si era sbagliata. Attraverso il suo metodo, però, Socrate si rese conto che la sapienza di quei dotti era in realtà solo presunzione di sapere. Comprese solo allora la Pizia: era lui il più sapiente perché era l’unico a sapere di non sapere e dunque consapevole della propria ignoranza.
6Platone, Teeteto, 151, c.
7Reale G.- Antiseri D., Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, Vol. I, Editrice La Scuola, Brescia 1983, p. 68.
8Corradi Fiumara G., Filosofia dell’ascolto, Jaca Book, Milano 1985, p. 188.
9Tomatis A., Ascoltare l’universo. Dal big bang a Mozart, Baldini & Castoldi, Milano, 2005, p. 210.
10Corradi Fumara, op. cit. p. 189.
11Corradi Fumara, op. cit., p. 174.
13Socrate invita i suoi interlocutori a seguire il motto inscritto sul tempio di Delfi: “Ghnôthi sautòn”. Tale motto è stato interpretato in vari modi. Potremmo qui riassumere dicendo che è un invito a conoscere se stessi e i propri limiti prima di procedere alla conoscenza di ciò che è altro da sé, e che la verità (il méghiston agathón, il sommo bene) si deve cercare in se stessi.
14Cfr. Corradi Fumara, op. cit., p. 167 e segg.
15Corradi Fumara, op.cit., p. 171.
16All’origine del nostro pensiero occidentale, dunque, non solo la conoscenza dell’altro da sé, ma “la ricerca dell’identità personale sembra addirittura coincidere con l’ascolto del proprio messaggio interiore”, Corradi Fumara, op.cit., p. 172.
17“Stando ad Heidegger, “l’oblio dell’essere” caratterizza la traiettoria del pensiero metafisico occidentale da Platone a Nietzsche”, Corradi Fumara, op.cit., p. 254.