Bonardi Giangiuseppe (a cura di), Il contributo di Gilbert Rouget alla riflessione musicoterapica

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La riflessione in merito all’adozione della musica in musicoterapia trova ulteriori spunti di indagine nelle ricerche etnomusicologiche  di  Gilbert Rouget.
Nel contributo proposto in questo articolo, l’etnomusicologo francese analizza le dimensioni  sollecitate dall’esecuzione  e dall’ascolto della musica, toccando anche il rapporto con la malattia.
Sapendo bene come sia difficile, per noi musicoterapisti, trovare gli eventi musicali idonei al nostro lavoro, il pensiero di Rouget può aiutarci nell’accurata scelta di musiche idonee a sollecitare risposte fisiologiche, psicologiche, affettive e terapeutiche da tenere in considerazione quando interagiamo con i nostri assistiti.
Giangiuseppe Bonardi
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La musica, gli dèi, la malattia1
 
[…] Quali campi del sentire tocca la musica?2.
Semplificando al massimo, possiamo dire che si è sensibili alla musica a vari li­velli: fisiologico, psicologico, affettivo, estetico.
 
Piano fisiologico
Sul piano fisiologico, se l’udito è la principale funzione sensoriale che permette di percepire la musica, non è tuttavia l’unico canale di percezione.
Le vibrazioni musicali sono movimenti la cui ampiezza, se riferita al corpo umano, è relativamente grande.
Il movimento degli oggetti che le generano _ o che queste imprimono agli oggetti, dato che tale azione può esercitarsi in tutti e due i sensi _ è sempre sensibile e spesso persino visibile, e quindi di natura direttamente materiale e concreta.
Una vibrazione musicale può essere qualcosa di palpabile.
Basta toccare la tavola armonica di un violino mentre viene suonato per sentire la palpitazione dei suoni con la punta delle dita.
Se ci si avvicina ai grossissimi tamburi fatti risonare dagli Yoruba per le loro cerimonie segrete di oro, se ne percepiscono le vibrazioni tanto con le orecchie quanto con il ven­tre.
Se invece ci si piazza accanto al piccolissimo tamburo che viene suonato anch’esso per oro, ma la cui sottile tesissima membrana è frustata piuttosto che battuta, prestissimo, con sottili bacchette, è tutta la testa che risuona.
Sulla tribuna di un organo in piena funzione, la musica invade il corpo intero; il mondo trema e tutta l’atmosfera risuona.
«Essere immersi nella musica» non è una semplice metafora; accade veramente che la si riceva fisicamente.
Il vibrare della fiamma delle can­dele al suono dell’organo, in chiesa, è stato uno degli elementi che ha messo Louis Roger (1748)3 sulla strada della teoria de­gli effetti della musica sul corpo umano.
Il singolare uso fatto dai Tibetani della vibrazione di una pelle di tamburo4 deriva in fin dei conti da un’osservazione del medesimo tipo.
L’atto di soffiare nel clarinetto comporta la sensazione di movimento dell’ancia fra le labbra. Percuotere una campana tenuta in ma­no fa entrare in diretto contatto con le vibrazioni della sua pa­rete.
Scuotere un sonaglio significa sentir vibrare il guscio della zucca sotto il cozzo dei semi. Suonare un arco musicale o uno scacciapensieri vuol dire sentir muoversi la corda o la linguetta sulla cavità orale.
Ma non è solo l’apparato sensoriale esterno ad entrare in gioco. Anche quello interno, fungendo da canale di trasmissio­ne, viene sollecitato dalla musica. È infatti noto che nel parlare, e ancor più nel cantare, si percepisce la propria voce dall’interno, ci si sente cantare. Si sente allora vibrare, palpitare la la­ringe (diciamo più semplicemente il collo o la gola). Come pure altre zone del corpo: la cavità orale, il torace e l’addome, la re­gione pelvica5.
La musica anima quindi gli oggetti e fa insieme palpitare il corpo.
[…] Ci basterà sotto­lineare, comunque, l’importanza del suo impatto fisico sull’a­scoltatore nonché la modificazione sensoriale della coscienza del proprio essere che questa comporta. Impatto fisico peraltro deliberatamente ricercato dalla musica pop, che grazie all’uso di amplificatori ottiene effetti di eccezionale violenza sonora.
Dopo aver segnalato che la potenza della musica generata da un certo musicista pop «raggiungeva i 10000 watt» (!) e che «si poteva udire il festival di Wight entro un raggio di 3 km», Alain Roux6 (1973, p. 130) rileva che:
 
Tale potenza coinvolge direttamente il corpo, creando una partecipazione che molti non raggiungono neppure durante l’atto sessuale.
Si può resistere solo fuggendo.
Per via dell’amplificazione, la voce umana agisce sulla laringe.
[...] Le sonorità del basso elettrico (infrasuoni) provocano nell’addome vibrazioni localizzabili in zone eroge­ne interne.
[…] La ripetitività delle melodie e i ronzii causano istan­taneamente un leggero stato ipnotico.
 
È chiaramente a questo genere di effetti che mirano certe mu­siche di possessione, come ad esempio quella dello ndöp7.
D’altra parte, la musica è per essenza movimento.
Essa trae origine da movimenti corporali _ cantare significa far vibrare la propria laringe, tambureggiare comporta il movimento delle braccia, per suonare la viella si fanno scorrere le dita lungo un manico e si strofina un archetto su una corda _ incitando di rimando al movimento.
Dal momento che, per definizione, la musica si svolge nel tempo, i rapporti del suono con se stesso mutano costantemente (anche se questo non varia, poiché il fatto di durare implica necessariamente un mutamento di du­rata), e tali cambiamenti si inscrivono a vari livelli nello spessore temporale.
Anche sotto il suo aspetto più immateriale ­_ come nel caso del suono totalmente isolato dalla sua fonte _­ la musica viene sentita come movimento che si realizza nello spazio.
Evidentemente lo è molto di più allorché la si esegue durante la danza o per la danza.
Danzare vuol dire inscrivere la musica nello spazio, cosa che avviene attraverso una inces­sante modificazione dei rapporti delle diverse parti del corpo fra di loro.
La coscienza del corpo ne viene perciò completa­mente trasformata.
In quanto incitamento alla danza, la mu­sica si rivela pertanto capace di modificare profondamente il rapporto dell’io con se stesso, in altri termini la struttura della coscienza.
 
Piano psicologico
Sul piano psicologico, la musica influisce anche sulla perce­zione, tanto spaziale quanto temporale, che si ha del proprio essere.
Analogamente al suono della parola, il suono musicale definisce lo spazio in cui mi trovo come uno spazio abitato da uomini, nel quale vengo ad assumere una certa collocazione.
[…] I rumori della natura mi informano sui suoi movimenti, i suoni prodotti dagli uomini sulla loro presenza e la natura di tali suoni sull’attività che stanno svolgen­do […].
Sento la presenza di uomini che stanno facendo qualcosa.
I suoni che odo costellano lo spazio e mi consentono di integrarmi in esso.
Nella dimensione temporale, la musica modifica ancor più la coscienza del proprio essere.
In quanto architettura del tempo, gli conferisce una densità diversa da quella quotidiana, una materialità insolita o di un altro ordine.
La musica indica che qualcosa sta succedendo; che il tempo è occupato da un’azione in svolgimento, oppure che un certo stato regna sugli esseri. Ne è un esempio il rullo del tamburo che risuona nel circo mentre il trapezista esegue un salto mortale.
Ancora un esem­pio: quel rituale per l’intronizzazione di un nuovo depositario del potere di Ogun Edeyi, dio del ferro di una certa comunità contadina in territorio nago-yoruba.
Intorno al santuario è riu­nita una folla di varie centinaia di persone, venute ad assem­brarsi poco alla volta al cadere del giorno.
Rumore sordo.
Via­vai nell’oscurità punteggiata dalle luci delle lampade a petrolio.
Man mano, senza che ce ne si renda conto, le lampade si spengono le une dopo le altre.
Buio completo.
Sonnolenza.
Verso mezzanotte si ode un grido, dal santuario esce una luce che sprizza scintille e all’improvviso risuonano i tamburi.
Il loro crepitio s’impossessa del mondo.
L’universo è mutato.
Qual­cosa sta accadendo.
Echeggeranno senza posa per otto o die­ci ore.
L’alba scaccerà la notte, il giorno scaccerà l’alba, il sole scaccerà il fresco del mattino, senza che il battito dei tamburi si sia interrotto per un solo istante.
Più esattamente, del tam­buro: quel piccolo tamburo (ne abbiamo già parlato in prece­denza) che risuona anche per oro, poggiato per terra e suonato da due tamburini posti uno di fronte all’altro, con due altri suonatori disposti lungo un asse perpendicolare a quello dei primi due e pronti a dar loro il cambio.
Contrariamente agli al­tri tamburi insieme ai quali forma la batteria, questo piccolo tamburo non «parla», e non svolge neppure quel ruolo metro­nomico che così spesso hanno i piccoli tamburi.
Batte più o meno rapidamente e più o meno forte, ora frenetico, ora som­messo; di fatto non ha una vera e propria funzione ritmica.
Tutto indica che il suo ruolo è di mantenere una certa risonan­za per garantire la continuità dell’azione, di instaurare insom­ma un diverso ordine di durata o, se si preferisce, di operare una sorta di cristallizzazione del tempo.
Si tratta qui di ferma­re il tempo, per un periodo relativamente lungo (una mezza giornata), su di uno spazio relativamente vasto (il santuario e i luoghi circostanti) a beneficio di un numero relativamente elevato di persone (una ventina di protagonisti e varie centi­naia di spettatori).
In queste condizioni, la cristallizzazione del tempo non può mantenersi uniforme e attraversa necessaria­mente momenti di intensificazione e di rilassamento. Ma ciò ha poca importanza. Quel che conta è che essa non venga mai meno del tutto. A questo livello assai elementare dell’organizzazione temporale attraverso la musica se ne sovrappone un altro che è un'autentica architettura del tempo.
Le musiche di possessio­ne non si servono solo, contrariamente a ciò che si ritiene di solito, della ripetizione e dell’accumulazione.
Le divise musi­cali sono degli enunciati melodici o ritmici e quindi delle forme temporali, suscettibili di variazioni e di ornamenti, che si sus­seguono nel corso della cerimonia, formando delle sequenze che assolvono una funzione di rinnovamento e di sviluppo del tempo musicale senza tuttavia intaccarne l’unità, dal momentoche i vari brani che si concatenano appartengono tutti ad un unico genere.
Trasformando pertanto in varia maniera il modo di sentire il tempo e lo spazio, la musica modifica il nostro «essere-nel-mondo».
 
Piano affettivo
La risonanza affettiva suscitata dalla musica _ per lo meno da certe musiche _ in qualsiasi individuo costituisce un ulteriore aspetto dello sconvolgimento da essa operato nella coscienza. La capacità della musica di risvegliare associazioni emotive e di ricreare situazioni che coinvolgono l’intera sensibilità dell’essere è unica, determinando uno stato interiore ac­compagnato da rapporti con il mondo in cui prevale l’affettività.
 
Piano estetico
Quando raggiunge le vette dell’arte, infine, la musica susci­ta un sentimento di totale adesione dell’io a quanto sta acca­dendo intorno, e opera in tal senso un’ulteriore trasformazione della struttura della coscienza, attuando un particolarissimo rapporto dell’io con il mondo.
Queste osservazioni assai sommarie servono unicamente a ricordare che la musica modifica profondamente e a vari livelli la coscienza di sé e del proprio rapporto con il mondo.
Tali modificazioni hanno essenzialmente a che fare con la dimensione sensibile di questi rapporti. Vedremo come anche le relazioni con gli dèi partecipino in parte di questa categoria.
 
Una lettura antropologica della malattia
Naturalmente non si può capire la possessione se non situandola nel quadro delle rappresentazioni del mondo caratte­ristiche di una data società.
Tali rappresentazioni, a loro volta, devono essere messe in rapporto con il modo in cui vengono vissute quotidianamente e in particolare con il modo in cui si vive giorno per giorno, indipendentemente da ogni cerimonia, la presenza degli dèi.
Il minimo  che si possa dire è che se ne hanno scarse informazioni.
Si sa, tuttavia, che nelle società di tipo arcaico, nelle quali si osservano appunto i culti di posses­sione, l’individuo mantiene un costante contatto sensoriale con la natura, e vive in un rapporto intimo con gli elementi, le piante, gli animali. Per lui, la distinzione tra mondo animato e inanimato è estremamente confusa.
Uomini, bestie, piante, cose, tutto ha un’anima.
Ogni fenomeno lo si interpreta come il risultato dell’azione o della presenza di un’anima e il visibile è sempre animato dall’invisibile.
In ogni oggetto, in ogni luogo familiare, in ogni attività quotidiana e in ogni fenomeno con­creto egli riconosce la presenza di un dio.
Si è quindi in diritto di ritenere che per lui gli dèi siano esseri di cui sente la vicinan­za fisica. Questi sono all’origine, beninteso, di rappresentazio­ni astratte, ma tutto indica che la loro esistenza è da lui forte­mente vissuta a livello di esperienza sensibile.
Aggiungiamo che, presso parecchie società, la maggior parte delle anime che  popolano l’invisibile sono anime di morti accanto ai quali l’in­dividuo vive talvolta fisicamente (presso i fon e i gun, ossia nella terra dei vodun, i morti si seppelliscono all’interno dell’abitazione) e a cui fa riferimento in ogni occasione.
È noto del resto come spessissimo egli attribuisca la malattia alla presenza di uno spirito mal disposto verso di lui o che pre­tende da lui qualcosa, oppure alla cattura della sua o di una delle sue anime da parte di uno di questi spiriti.
In tale conte­sto, è quindi legittimo interpretare la malattia come la depos­sessione di sé da parte di un altro che succhia le proprie forze, scinde la personalità, aliena le proprie capacità fisiche o mentali.
La malattia fisica deriva da sensazioni provenienti da una parte ricalcitrarne del corpo _ più o meno importante, più o meno localizzabile secondo i casi che invadono la coscienza.
Per un individuo che non concepisca il proprio corpo secondo le categorie biologiche del mondo moderno e che non interpre­ti i disturbi del suo funzionamento come alterazioni dovute ad agenti microbici o a squilibri chimici, nulla di più naturale che vedere nella malattia il risultato di una presenza estranea, dato che nella malattia non ci si riconosce e la parte malata diventa un corpo estraneo, gli organi colpiti assumono un’esistenza au­tonoma e sembrano abitati da una vita distinta.
Sul piano mentale o nervoso, la malattia, o solo la fatica, l’irritazione, l’ansietà, il fastidio generano sensazioni interne confuse e moleste che invadono la coscienza.
Espressioni come «avere i ner­vi a fior di pelle», «essere in preda all’ira», essere «divorato» dalla febbre, essere «roso» dall’impazienza _ presenti in ogni lingua e che dimostrano quindi che si tratta di un’esperienza universale _ stanno a indicare esattamente un’alterazione delle sensazioni corporee, una modificazione fisica dell’io, la presenza di un essere vivente che alberga nel corpo.
Nelle so­cietà di cui ci occupiamo, tali stati interiori vengono percepiti a livello sensoriale tanto più intensamente in quanto  la vita quotidiana è soggetta al lavoro manuale, che mantiene sveglia la coscienza del corpo. In queste condizioni, mettere in rela­zione gli stati interiori con la presenza fisica di una di queste anime, di questi spiriti o geni, di una di queste divinità insom­ma che popolano il mondo esterno e ne governano tutti i feno­meni, vuol dire ascoltare il buon senso.
Un buon senso che si ricollega, tutto sommato, con la teoria comune sul funziona­mento generale del mondo.
Se ne conclude che, nelle società di cui ci occupiamo, sia il modo di sentire la musica che quello di vivere la presenza degli dèi e di subire la malattia dipendono, sul piano della struttura della coscienza, da un unico tipo di relazione con il mondo e con se stessi.
Ciò spiega come gli dèi, la malattia e la musica possano essere così strettamente legati fra loro nei culti di possessione.
 

1Rouget  G., (1980), Musica e trance, Einaudi, Torino 1986, pp. 164-171.
2Argomento estremamente complesso la cui trattazione, per essere esaurien­te, dovrebbe venire svolta a livello interdisciplinare. Per il momento sembra che un lavoro di questo genere non sia stato ancora svolto. Ricordiamo che l’opera di Robert Francès sulla percezione della musica risponde a tutt'altre esigenze. Lo stesso autore ne parla infatti (Francés R. (1958), La perception de la musique, Libraire philosophique Vrin, Paris 1972, p. 414) come di «prolegomeni a una teoria del giudizio estetico» e afferma di esser ricorso ai dati della psicologia sperimen­tale e sociale (ibid., p. 402) senza tener conto, o quasi, di quelli forniti dalla fisio­logia e senza stabilire confronti.
3Carapetyan A., (1948), Music and Medicine in the Renaissance and in the 17th 18 th Centuries, in Schullian e Schoen (a cura di), Music and Medicine, p. 148.
4Un’antichissima forma di divinazione praticata dai Tibetani consiste nel leggere gli spostamenti dei semi posti sulla membrana di un tamburo, causati dal­le vibrazioni di un tamburo vicino, percosso dall’indovino. Questi invoca con­temporaneamente le divinità del caso, chiedendo loro di rispondere alle sue do­mande (Nebesky-Wojkowitz R., (1956), Oracles and Demons of Tibet, Mouton, ‘s Gravenhage, pp. 457-60).
5Su questa topografia della sensibilità interna, cfr. Husson R., (1060) La voix chantée, Gauthier-Villars, Paris, pp. 60 sgg.
6Roux A., (1973), La musique pop, in Paul Beaud e Alfred Willener, Musique et vie quotidienne. Essai de sociologie d’une nouvelle culture, Mame, Paris.
7Cerimonia di trance della zona di Dakar.