Delogu Chiara, Silenzio
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- Categoria: SILENZIO & SILENZI
- Pubblicato Mercoledì, 08 Aprile 2015 19:39
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L’incantesimo si rompe ogni volta che i pensieri fanno rumore, risuonando in me.
Una pagina bianca come la pagina su cui scrivere ciò che verrà.
Keith Jarrett3 sostiene che dobbiamo essere aperti alle pause (silenzi) in modo da poterle riempire.
Dobbiamo vedere le pause, abitarci dentro, viverle.
Allora sarà chiaro quale nota suonare dopo, perché sarà quella necessaria.
È all’interno delle pause che c’è la musica, all’interno di quelle pause pulsanti.
Il silenzio altro non è che un ‘tra’, una parentesi tra quello che c’è stato e ciò che sarà.
È il qui ed ora.
È il modo per riconnettersi a sé.
Nel contesto terapeutico è stato per me un contenitore.
Un modo per vivere l’altro, entrare nell’altro.
Sentirlo.
Respirarlo.
Impossibilitata ad agire, ho sofferto per ore, dei famosi ‘perché?’…
I perché sono stati la declinazione del mio silenzio e nessuna certezza.
Dal caos è nato il mondo e dal silenzio sono nati un modo nuovo di osservare, un modo di accettare, un modo nuovo di sentire l’altro, un modo di sentire me.
E quando tutto tace, la musica che sento è quella del mio cuore, del mio essere che pulsa, che vive.
E allora scopro che non sono mai sola.
E che quel silenzio, silenzio non è.
È pace.
È armonia dei sensi, è consapevolezza di sé.
Se all’inizio del mio viaggio ho sofferto del silenzio nel silenzio, ora lo ringrazio.
Perché senza di esso non avrei potuto capire molte cose.
E quando Michele4 si è presentato a me, senza pause mi sono sentita spaventata, intimorita…
Una nuova condizione si presentava a me, alle mie orecchie, a tutto il mio essere.
Una condizione di saturazione dei suoni e dei rumori. Nessuna pausa, nessun respiro, nessuna attesa. Tutto pieno, tutto confuso, tutto saturo. Soffocante. La sfida è stata cercare di dilatare i tempi di produzione del suono e del non suono. Questo è avvenuto tramite l’utilizzo delle musiche preferite di Michele e di alcuni mediatori strumentali.
I primi mesi sono trascorsi con tutti i sensi allertati tranne uno: la parola.
Ho dovuto contenere, mai parlare. È difficile.
Solo occhi a scrutare.
Solo orecchie per ascoltare, pelle per sentire.
La pelle-sonora: un massaggio fono-vibratorio-tattile.
Ho capito cosa significa sentirsi con il proprio corpo-mente e con la propria pelle-assorbente5.
Il termine sinestesia, dal greco sun-aistesis, significa sentire insieme, i sensi sono intrecciati fra di loro e allora la musica diventa un profumo, un colore, un gusto.
La pelle, il tatto prende forma in musica.
Il silenzio diventa una armonia sensoriale: i sensi fanno pace fra di loro per un po’.
Nel silenzio, all'inizio di questa esperienza, la mente raziocinante non ha trovato un vero riposo e nell’assenza di un metodo particolare di autocontrollo, i sentimenti sono stati agitati e confusi.
Una folla di parole si è presentata in libertà sullo schermo dell’immaginazione, che solo io ho potuto contemplare e sentire come una colonna sonora in una cuffia: le leggi e le ascolti, e di solito non ti piacciono.
Suonano vuote e persino false.
Ma proprio perché taci, e non sei tenuto a parlare, ti rendi conto che è bene non pronunciarle, non esporle, e, più che in altre occasioni, le parole non vanno messe in circolo senza consapevolezza.
Ciascuno deve aderire fino in fondo a ciò che è vero dentro, come il sorriso alla letizia e alla simpatia, il bacio alla tenerezza e all’amore, il pianto al dolore e alla compassione.
E a poco a poco mi libero dal fiume traboccante di parole vane, bugiarde, fuorvianti, demagogiche, interessate, altisonanti, autocompiacenti, lasciandole cadere come foglie morte, e mi distendo.
Ma è un distendersi difficile, costellato dall’azione.
Ogni bambino che ho incontrato ha un particolare modo di vivere il silenzio.
Dorian6 riempie lo spazio; Betty7 sorride e guarda al suo mondo immaginario; Manuel8 si avvicina a me e si inchina mimando la scena di un cavaliere che invita la dama al ballo. Rita9 dà le spalle al musicoterapista e si chiude in se stessa. Osservo come ognuno di loro declina il silenzio a modo suo e lo vive intimamente, come un tempo per sé, come un tempo di ricostruzione del sé, come una pausa nel dialogo interiore.Michele è un bimbo di nove anni, affetto da ritardo mentale medio grave, con disturbo dello sviluppo ed epilessia mioclonica.
È minuto, magro, ossuto e due occhioni marroni brillano su un dolcissimo viso. Il sorriso e un profumo di pulito lo accompagnano sempre.
Michele riempie tutti i buchi di silenzio o con la voce, o con gli strumenti, oppure con il CD.
Perché?
Cosa c’è ‘dentro’ un silenzio?
Il rumore dell’anima?
La difficoltà di non farsi capire?
Cosa lo spinge a non fermarsi mai?
I suoi occhi mi guardano curiosi e intelligenti.
Conservano una brillantezza ballerina e il suo sorriso preannuncia la voglia di farmi scoprire chi è.
Cerco di entrare in empatia, dal greco empateia, passione intesa come comprensione dell’altro che si realizza immergendosi nella sua soggettività, senza sconfinare nell’identificazione.
Cerco di capire in modo empatico la sua struttura di riferimento interna.
Ma mi scontro inesorabilmente con le mie strutture interne. Il mio silenzio lo vivo serenamente; è la saturazione degli spazi che mi crea qualche problema.
La mia attenzione è costantemente stimolata.
Nel corso delle prime sedute mi sono ritrovata esausta proprio perché Michele non aveva tempi di pausa, aveva bisogno di riempire in maniera caotica e rumorosissima ogni istante della seduta.
La mia dimensione sonoro-musicale mi porta a restare in ascolto del mio silenzio ma, nell’incontrare Michele, questo spazio è venuto meno, e ciò è, stato frustrante sebbene decisivo per imparare a dilatare i tempi dell’altro, a vivere uno spazio saturo, a contenere e modellare i suoni.
Michele mi insegna che è necessario accettare l’altro, la parte logorroica dell’altro, il fiume in piena, la tempesta, perché poi arriva sempre il sereno.
Jerry, un paziente autistico di Ginger Clarkson10, scrive una poesia alla sua amica musicoterapeuta.
Una poesia che parla di un silenzio forzato, di un’ anima imprigionata in un corpo che fatica a parlare.
La ‘quieta contemplazione’, a cui fa riferimento, è quella a cui tento di arrivare ogni volta che faccio silenzio, che ascolto, che tendo l’orecchio e tutto il mio essere, verso l’altro e verso di me.
E la verità che incontro parla di luce, parla d’amore, parla di rispetto.