Spaccazocchi Maurizio, Può essere disumana una musica?
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- Pubblicato Martedì, 20 Ottobre 2015 18:35
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Mi ricordo come se fosse ora quel giorno in cui, a 16 anni, comprai il primo libro del Clavicembalo ben temperato di J. S. Bach nello storico negozio di Alfredo Baldelli, sì proprio a pochi passi dal Conservatorio Rossini di Pesaro.
Ma ancor meglio mi ricordo a memoria ciò che c’era scritto a piè pagina sotto i primi pentagrammi del Preludio I in Do maggiore[1] del noto musicista e revisore critico M° Alfredo Casella:
Questo mirabile “preludio” presenta la singolarità di essere una “musica senza melodia” o meglio una melodia di accordi (caratteristica che determinò il buon Gounod a sovrapporvi quella sua abbominevole e purtroppo celebre “méditation”)…
Questo è ciò che lessi quando la prima volta iniziai a strimpellare questo Preludio che ritenni subito un gran pezzo specialmente per il suo gioco armonico-accordale realizzato su un ostinato ritmico molto fluido, quasi come un insieme di leggere folate di un caldo venticello estivo.
Certo che già in quegli anni conoscevo pure l’Ave Maria di Gounod[2] (mi era meno nota sotto il nome di Méditation), ma mai mi saltò in mente di intravederla come una abbominevole e purtroppo celebre melodia, anche perché il suo carattere melodico, il suo testo religioso e il suo noto utilizzo nelle cerimonie nuziali, mi apparivano più che pertinenti al contesto popolare e sociale che doveva cercare di soddisfare un bisogno umano che altrimenti non poteva essere soddisfatto dal Preludio di Bach.
Ma soprattutto mi accadeva che più studiavo questo primo Preludio e più non comprendevo come Casella si fosse permesso di attribuire (nell’edizione della Curci del 1946) questi due opposti giudizi di valore: mirabile preludio, abbominevole méditation. Più passavo il tempo su quel pentagramma bachiano e più tra me e me mi chiedevo:
Ma sono giudizi di valore assoluto o forse molto personali?
E come fa un giovane studente a valutare tutto ciò?
Ma soprattutto, come si fa a non cadere nella “rete” di questi giudizi di valore se non si ha ancora maturato un proprio personale spirito critico nei confronti della vita in generale e delle musiche in particolare?
E ancora perché scrivere tali giudizi sapendo che queste pubblicazioni saranno prevalentemente studiate da giovani pianisti non ancora in grado di comprendere ciò che è un pensiero personale e partigiano da ciò che può essere una conoscenza più o meno condivisa da molti?
Ecc…
Oggi so che ogni interpretazione è personale e che quindi è direttamente connessa con il nostro egocentrismo percettivo-culturale, come ci dice anche Gustavo Zagrebelsky:
L’essere umano è essenzialmente interpretante. La vita è una sequenza d’interpretazioni, siano esse problematiche (quando i criteri d’interpretazione non sono evidenti a prima vista), o siano ovvie (quando invece lo siano, per pacifica interiorizzazione). (…)
La conoscenza delle cose apre alla loro interpretazione, ma l’interpretazione dà un senso alle cose stesse, le fa conoscere come manifestazioni di senso. Per questo, interpretare è sempre prendere posizione.[3]
Ma allora, se interpretare è sempre prendere una posizione, come mai un esperto musicale come Casella non ha sentito il bisogno di fare una premessa, giustificando che quei giudizi di valore oppositivi erano solo frutto di un suo personale modo di interpretare e che, in quanto tale, non sono obbligatoriamente da condividere?
Purtroppo non premettendo nulla, quel mirabile e quell’abbominevole da assunti personali hanno rischiato negli anni di trasformarsi in concetti forti, indiscutibili, come dei dogmi caduti dall’alto di un sapere interpretante supremo, rispetto a quello esternabile da tante altre persone più o meno addette alla musica.
In breve, in quel sublime e abbominevole così presentati, si cela un’evidente mentalità gerarchica, che mostra la chiara intenzione di rendere altamente umane certe musiche e, altre ancora, disumane. È inutile dire che nella mia “Garzantina” abbominevole sta per un qualcosa che suscita una forte riprovazione, detestabile, disgustoso, ripugnante, ecc.; mentre mirabile è una qualsiasi azioni o cosa che desta meraviglia, degna di ammirazione, palesemente straordinaria, ecc.
Ecco che cosa percepivo dietro a quei due aggettivi qualificativi: una certa visione “razzistica” dei comportamenti musicali umani. Una posizione “razzistica” che si rendeva tanto più disumana quanto più era sostenuta da soli criteri estetici personali per nulla sostenuti da altrettanti e ancor più profondi criteri etici.
Quando il filosofo francese J. P. Sartre, affermò che noi esseri umani, per nostra specifica natura “Siamo condannati alla libertà”, stava sostenendo che ogni uomo è sì libero, ma proprio perché è condannato a questa libertà, gli si presenta l’impegno e dunque l’obbligo di scegliere, di inventarsi il proprio saper essere (nella vita e, come aggiungerei, nella musica) sapendo con coscienza che una determinata azione, una volta portata a termine, non è così facilmente cancellabile come si può fare con un semplice gesto sul tasto delete della tastiera del nostro computer.
Oggi il filosofo spagnolo Fernando Savater, a proposito dell’uomo e di questa sua condizione, ci invita a prendere coscienza delle nostre azioni attraverso questa considerazione:
Riflettere su questa nostra natura e cercare le migliori spiegazioni per cui facciamo una cosa anziché un’altra costituisce parte del compito dell’etica. […] Gli esseri umani sono specie vulnerabile: vanno incontro al deterioramento, muoiono, subiscono facilmente danni fisici, morali e sentimentali, non possono fare agli altri quello che vogliono, devono stare attenti al prossimo.[4]
Ecco, questo richiamo all’etica, e cioè questo invito a rivolgere l’attenzione al prossimo sembra oggi, tanto nel vissuto quotidiano quanto in quello artistico-musicale, essersi perso, svanito certamente anche all’interno delle tante esaltazioni e “credenze” personali con le quali tutti noi musicisti, musicologi, pedagoghi della musica, professori universitari di discipline musicali, ecc. ci abbandoniamo nella convinzione di essere i portatori della verità, di una verità estetica che oggi più che mai lascia il tempo che trova se non viene sostenuta dalla più antica e stabile intelligenza etico-emotiva.
È anche per queste ragioni che Savater ci richiama a fare una semplice e chiara distinzione fra ciò che è tipico dell’estetica e ciò che invece è dell’etica:
L’estetica si occupa di quello che accade in superficie: mode, arte, piaceri passeggeri. Tutte cose importanti, ma che dopo qualche anno cessano di essere attuali. Per quanto mirabili siano i quadri di Rembrandt, non avrebbe senso continuare a dipingere con lo stesso stile di un artista del diciassettesimo secolo. L’estetica è un archivio, un catalogo, e il segreto è conoscerlo in profondità per poter creare le proprie opere ispirandosi agli artisti del passato. Insomma, l’estetica tratta di cose che con l’avanzare del tempo evolvono e tramontano, mentre l’etica si occupa di questioni che non scadono, che permangono, che non passano mai del tutto, delle cose che, in ultima analisi, restano importanti per gli esseri umani anche a distanza di secoli.
Se ancora oggi ricaviamo insegnamenti utili dall’Etica nicomachea di Aristotele, che è in circolazione da circa duemilatrecento anni, è perché tratta di questioni che restano valide e attuali. Se quel libro continua a porci delle domande, è perché il fondamento e il senso dell’interrogativo etico nel frattempo non è mutato. E se dovessi spiegare che cosa sono quel fondamento e quel senso direi che consistono nell’obbligo ad adempiere i nostri doveri nei confronti degli altri esseri umani. Chi pratica l’etica rinnova la spinta a considerare l’altro come un fine e non come un mero strumento dei nostri appetiti.[5]
È per ciò che l’etica è costretta a porsi il problema dei bisogni umani, e fra i bisogni umani ci sono le tante e diverse condotte musicali che, come ben sappiamo, non possono essere giustificate con un solo ed unico metro estetico, con un solo e unico approccio educativo, anche perché l’uomo è un essere che fa parte di un sistema complesso, plastico, bisognoso quindi di assumere tanti comportamenti, a diversi piani culturali, fisici, mentali, emotivi, relazionali… insomma umani.
Fra questi tanti e diversi comportamenti umani c’è anche la Méditation di Gounod come pure il Preludio I di Bach, e sia ben chiaro a tutti che queste due musiche, proprio perché prodotte dall’uomo, hanno lo stesso diritto d’esistenza, un posto socialmente diverso, ma pur sempre eticamente indicato da chi ancora ha in sé un qualsiasi briciolo di umanità.
Ma quanti di questi paradigmi musicali che rischiano di allontanarsi sempre più dall’etica, da quel senso comune di giustizia umana ho incontrato nel corso di questi anni?
Tanti ne potrei indicare, sia di vecchia data (Adorno e le sue tipologie d’ascolto in cui colloca al primo tipo l’esperto che ascolterebbe in modo adeguato e relega al quarto posto l’ascoltatore emotivo che, ad esempio, si lascerebbe trasportare dalla sua dimensione pulsionale) che attuali come chi sostiene ancora la grande qualità estetica del canto lirico in rapporto a quello jazz o etnico, o come chi dichiara che non può esistere una valida educazione musicale del cittadino se non si persegue un ascolto consapevole di musiche qualificate come buone, poiché solo grazie a queste si stimolerebbero nei nostri giovani i processi cognitivi e solo così li esporrebbero a vere emozioni formalizzate, anche le più crude come la grande gelosia manifestata dalla personalità complessa di Otello, o dalla evidente malvagità di Scarpia, o ancora dalle allucinazioni di Wozzeck. E che dire ancora di quei sostenitori dell’effetto Mozart (o di altri repertori) che vorrebbero imporre ai nostri figli solo quelle musiche per renderceli tutti molto più intelligenti?
Tutte queste sono affermazioni partigiane e limitate, poiché non vogliono prendere in considerazione la vasta complessità dei potenziali neuronali umani e la grande diversità di pratiche attraverso le quali ognuno di noi potrebbe arricchire la propria intelligenza generale e musicale.
Da questi diffusi “predicatori” di paradigmi pseudoscientifici, che contrastano con la più umana delle relazioni sociali e musicali, si può intravedere solo una grande assenza: l’impossibilità di ammettere che la diversità delle esperienze e delle culture è una caratteristica essenziale che non può essere gerarchizzata sulla base di valori o di forme di conoscenza sorrette solo da credenze forti e pur non molto giustificate.
Difronte a tutte queste posizioni poco rispettose dell’umanità in quanto presenza reale di diversi individui portatori di altrettanto diverse menti piene di corpo o se vogliamo di corpi pieni di mente (Mindful body), non possiamo fare altro che educare i nostri giovani studenti di musica e non solo a praticare in classe la più ampia democrazia interpretativa, poiché sarà solo con il rispetto delle diversità e delle complessità che l’uomo potrà trovare un posto migliore nel prossimo futuro.
E non sarà certo con i predicatori di “verità” insostenibili che le nostre società e i nostri figli evolveranno. È per questo, che specialmente oggi, non abbiamo più bisogno di propalatori di certezze, poiché un buon sapere culturale e musicale, ad alto potenziale etico e democratico, è fatto di risposte sane e di soluzioni umanamente più affidabili, non di verità certe e dogmatiche strillate dai “salvatori” dell’educazione musicale italiana.
Per far capire tutto ciò ai nostri giovani studenti, basterà invitarli a immaginare che cosa accadrebbe se la nostra specie umana si trovasse difronte a una specie aliena che, secondo i suoi criteri di valore ci catalogasse come degli esseri abbominevoli, poiché loro si ritengono o credono di essere individui mirabili.
In questa ipotetica situazione saremmo tutti certi di trovarci davanti ad una specie disumana, imprigionata nella sua illusoria credenza, nella sua tanto limitata coscienza etica. È questa coscienza imprigionata, è questo pensiero limitato che ci può rendere persone poco etiche, persone interessate solo a se stesse e quindi limitate sul piano umano, come ci fa riflettere pure questa illuminante frase di Albert Einstein:
Un essere umano è una parte di un tutto da noi chiamato universo, una parte limitata nel tempo e nello spazio. Egli fa esperienza di se stesso, dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti come di qualcosa di separato dal resto, una specie di illusione ottica della sua coscienza. Quest’illusione è una specie di prigione, perché ci limita ai nostri desideri personali e all’affetto per le poche persone più vicine a noi. Il nostro compito deve essere quello di liberare noi stessi da questa prigione, allargando il nostro cerchio di compassione, per abbracciare tutte le creature viventi e l’intera natura nella sua bellezza.[6]
Quel cerchio di compassione di cui parla Einstein, è ciò che manca a chi vuol farci vedere e imporre il suo limitato pensiero, sia esso educativo generale che musicale particolare. È per questo che possiamo affermare serenamente davanti ai nostri figli e ai nostri studenti che non esistono al mondo musiche disumane: sono solo certi uomini e certe donne che possono mostrarsi a noi come soggetti portatori di una scarsa umanità musicale.
Maurizio Spaccazocchi
[1] Esecuzione di Sviatoslav Richter https://www.youtube.com/watch?v=zppXh_9_nLQ
Esecuzione di Maurizio Pollini https://www.youtube.com/watch?v=8Ks9Q8AF4Do
[2] Esecuzione di Eaken Piano Trio https://www.youtube.com/watch?v=cvddphhQtjY
[3] Zagrebelsky G., Fondata sulla cultura, Einaudi, Torino 2014, pp.78-79
[4] Savater F., Piccola bussola etica per il mondo che viene, Laterza, Bari 2014, p. 7.
[5] Idem, p. XI-XII.
[6] Tratto da Goldstein J., L’esperienza della meditazione, Laterza, Bari 1984.